"oddio mi sento le caviglie in catene"

lunedì 9 marzo 2015

senza titolo 15

"Andate fuori, fate quello che volete, restateci una quindicina di minuti, ma anche un po' meno. Cercate qualcosa che vi dia ispirazione. Poi tornate dentro e scrivete qualcosa. Deve avere un incipit, uno o più personaggi, una descrizione e tu, Daria, scrivilo in seconda persona."

Questo è quello che è uscito da una passeggiata di 15 minuti in una via, aimè, deserta.





Sono le tre del mattino. La giornata è stata più lunga del previsto, sei uscito con il sole e adesso fa freddo.
La strada che ti riporta a casa è completamente vuota, quasi non la riconosci, eppure l’hai percorsa tutti i giorni in cui hai trovato il coraggio di affrontare il mondo. Ma nei tuoi ricordi è popolata da decine di persone che intorno a te tornano alle loro case, dove forse li aspetta qualcuno; la cena pronta ed il sorriso stampato in faccia. Adesso invece non c’è nessuno e solo l’eco dei tuoi piedi nelle scarpe troppo grandi ti risuona nelle orecchie. Proprio questo è il momento in cui pregheresti di incontrare qualcuno, se la paura che sia uno sconosciuto non ti bloccasse il respiro rivestendo i tuoi polmoni di uno strato di ansia rarefatta.
Una serie infinita di piccoli negozi in cui si rivendono oggetti provenienti da cantine svuotate segna il profilo dei palazzi che si stagliano bui alla tua sinistra. Sono oggetti che provengono da decenni e stili di vita che non ti appartengono. Lanci una rapida occhiata dentro le vetrine di alcuni di questi e vedi nell’ordine: un divano anni 70 con la stoffa delle sedute rovinata con una lampada che gli pende sopra, una palla di vetro precaria, un comodino di legno con due cassetti, una serie di animali orribili, argentati, tra cui un grosso felino che ti guarda brillando di una luce che non ha origine, la ricostruzione in cartone di una carrozza rosa. Ti ci immagini per un attimo dentro, vestito da principessa. Pensi ad una ragazzina a carnevale vestita del suo imbarazzo, il rossetto sbavato ai lati della bocca che non apre per paura di arrossire.
Svolti a sinistra e ti rendi conto solo dopo qualche passo che stai andando nella direzione sbagliata e nonostante questo non riesci ad invertire la rotta. Vorresti incontrare lei, che hai visto qualche settimana fa alla cassa del supermercato. In fila, le cuffie nelle orecchie, in mano solo una bottiglia di vino e del formaggio. Lei, con la faccia più semplice che tu abbia mai visto. Nessun segno particolare, la pelle morbida, un naso, una bocca, due occhi. Niente di scomposto, di fuori luogo eppure tutto a disagio con l’ambiente circostante. Potrebbe vivere in quel quartiere ma ti rendi conto che questa non può essere una certezza. Eppure l’idea che in quel momento sia proprio dietro l’angolo, che torna a casa da una giornata durata molto più del previsto e senta lo stesso freddo che senti tu, ti fa sentire meno solo. Ovunque lei sia sai di adorarla, e questo già ti basta.
Osservi la punta dei tuoi piedi entrare ed uscire dal tuo campo visivo. Cammini spostando il peso da una gamba all’altra con movimenti cadenzati, a dare ritmo ai tuoi pensieri che hanno sbagliato strada come te.
Ti ritrovi in una strada che non hai mai visto e ti accorgi di aver raggiunto il fiume. L’acqua scorre lenta anche di notte e questo ti stupisce. Scegli il punto dove senti più freddo, dove l’umidità spinge sulla tua giacca leggera con forza per entrare. Bussa sulla tua pelle per farsi spazio tra le tue ossa e tu le apri senza paura. Ti fermi per un tempo indefinito, sempre in equilibrio tra il troppo lungo e il troppo breve. Tiri fuori una mano dalla tasca e ti cadono le chiavi, che sferragliano sulla strada ricoperta di foglie.
Poi ti giri e te ne vai, stringendo il mazzo saldamente nel pugno chiuso, è ora di tornare a casa dove il solito vuoto ti aspetta. Stringi anche la consapevolezza della catastrofe, la fai passare tra le dita, dal mignolo al pollice con una sequenza ordinata. Questo la fa sembrare già finita, ordinata mentre si scioglie nelle parole che non avresti mai il coraggio di dire alla ragazza del supermercato.
Domani è domenica e non uscirai, probabilmente sarà il giorno più bello della tua vita. 

giovedì 5 marzo 2015

senza titolo 14



Guardò, per l’ultima volta, l’edificio in fondo alla lunghissima discesa di strada sterrata e avvertì la sensazione di essersi decisa troppo tardi. Spinse sull’acceleratore, girò delicatamente il volante e svoltò a sinistra. Al primo parcheggio disponibile, in mezzo alle macchine degli altri invitati, si fermò e si guardò nello specchietto retrovisore per mettere a posto il trucco. Non aveva voglia di entrare in quella sala piena di persone che la aspettavano già da un po’ o che, forse, non la aspettavano più. Prese coraggio e borsa e si trascinò fuori, chiudendo la portiera dietro di se. Il terreno tra gli olivi del parcheggio era sconnesso.
Pensò alle difficoltà che dovevano aver avuto, qualche ora prima, le altre invitate con i loro tacchi vertiginosi e sorrise.
Il chiasso della sala da pranzo la investì riportando subito la sua immaginazione alle solite scene deprimenti dei pranzi di compleanno di Mara. Si erano fatti ogni anno più noiosi, e la sensazione che non ci fosse nulla a legare insieme tutte quelle persone, se non Mara stessa, era netta nell’aria.
Teresa stette un po’ fuori dalla porta d’ingresso ad immaginare l’interno chiedendosi, ancora una volta, cosa ci facesse lì. In fondo, dopo la festeggiata, era la persona più importante della festa e sapeva che la sua presenza, così come la sua assenza, sarebbero state notate. Prese il suo disagio sotto braccio, chiuse la borsetta, spinse la porta di ingresso della veranda e mise il primo piede oltre la soglia.
“Eccoti finalmente, si può sapere dove eri finita?”, la accolse gelida Mara che si stava rollando una sigaretta seduta al centro della tavolata più lunga.
Teresa la guardò con l’aria rassegnata di chi sapeva che avrebbe dovuto dare mille spiegazioni e non ne aveva alcuna voglia. “Scusami ho fatto tardi”.
“Sì questo lo vedo. Non ti chiedo neanche perché, lo so che non ne avevi voglia. Quindi non ti costringerò ad inventare scuse.“
“Ferma, ferma, ferma. Non ho nessuna intenzione di inventare scuse. So che lo sai che non vorrei essere qui. Così come so che neanche tu vorresti.”
“A questo punto, potevi anche non venire più.”
“Ciao, Teresa!”, una tipa alta con capelli perfetti, chiusa in un vestito finto casual ma curata nei minimi dettagli e con il trucco di quattro ore prima senza sbavature, la salvò da quella conversazione. Non riusciva nemmeno a ricordarne il nome in quel momento, ma doveva essere qualcosa come Paola, Catia, Anna, un nome corto per risparmiare tempo che lei non sembrava averne molto a disposizione, mai.
Teresa e Mara alzarono lo sguardo verso la donna contemporaneamente; la prima con lo sguardo brillante di chi sta per essere salvato da una situazione ingombrante, la seconda fulminea e scocciata.
Poi, Mara si alzò di scatto con la sua sigaretta pronta tra le mani e senza dire una parola si avviò verso la porta di ingresso per andare a fumare sulla veranda. Teresa si congedò rapidamente dalla donna perfetta con il nome breve mentre seguiva Mara con lo sguardo. Si incamminò dietro di lei, nonostante non avesse nessuna voglia di mettersi a discutere. Ma eseguì i gesti di chi fa esattamente, sempre, quello che deve essere fatto e non sfugge mai alle proprie responsabilità.
Mara fumava con la schiena poggiata alla parete esterna della sala da pranzo, con fare nervoso, dando ad ogni tiro dei colpetti alla sigaretta per far scendere la cenere. Teresa uscì nella veranda e le si mise accanto.
“Mi dispiace, lo sai che non le sopporto queste persone. Sono rimasta più di un’ora in cima alla salita, al lato della strada, seduta in macchina, valutando se scendere. Sapevo che era questa la cosa che ti aspettavi da me e alla fine sono venuta.”
“A questo punto, potevi anche non venire più”, ripeté per la seconda volta, come un mantra. Mara non sembrava voler aggiungere altro.
Teresa insistette. “Mi dispiace, davvero, ma vedi alla fine sono arrivata e sono convinta che nessuno si sia accorto della mia assenza, sono tutti troppo impegnati con il cibo e i loro discorsi deprimenti e molti sono già oltre con il tasso alcolico”, fece Teresa per sdrammatizzare ”dai hai visto il marito depresso di Paola, che è seduto giù all’angolo in fondo, è già andato, sembra che stia per scoppiare.”
“Non ho voglia di ridere, mi chiedo perché tu sia ancora qui. Potevi non venire.”
Alla terza ripetizione e di fronte all’evidenza che i suoi sforzi non sarebbero stati apprezzati, Teresa girò su se stessa e disse: “Bene.”
Tornò dentro e si buttò sulla sinistra seguendo la freccia della scritta WC, che indicava le scale. Mentre le percorreva lentamente  per darsi il tempo di pensare, sentì la rabbia salirle dentro, e la sentì trasformarsi lentamente in lacrime. La sua tipica reazione che tornava di nuovo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di cacciarla indietro nella gola. Odiò se stessa e Mara e quella con il nome corto, e quel posto, sempre lo stesso, da anni. E poi ancora lei e quella sua fissazione di organizzare ogni anno la festa, la odiava per aver continuato, imperterrita, anche dopo che le vite di tutti avevano cominciato a fare contrasto con la loro. Anche quando era diventato palese che i suoi vestiti da ventenne non sarebbero cambiati, nonostante di anni ne avesse quasi il doppio, e le sue scarpe non sarebbero diventate come quelle delle altre che arrancavano dalla macchina alla veranda trascinando i mariti, ombre di donne in carriera.
In realtà non doveva andare in bagno. Era alla disperata ricerca di un posto vuoto dove fermarsi a far passare i minuti che la separavano dal momento in cui avrebbe potuto tornare alla macchina. Il momento in cui la sua assenza non sarebbe stata più notata e in cui avrebbe potuto dileguarsi veloce così come era apparsa pochi minuti prima. Superò il bagno e proseguì per il corridoio lunghissimo che sembrava portare ad altre scale e poi al terzo piano.
Dalla strada si vedevano distintamente i due piani superiori dell’edificio. Era stata a guardarli per un po’ immaginando i proprietari che la sera si ritiravano nelle loro stanze. Doveva essere una vita abbastanza noiosa, vivere e lavorare nello stesso posto, a circa cinquanta chilometri di strada di montagna malmessa dal primo centro abitato. Si era anche immaginata per un momento al loro posto, ed era uno sforzo bello grande pensarsi con una famiglia da mantenere, con i sacrifici da fare per garantire un’educazione ai figli. Era tutto così lontano dal suo stile di vita da rendere il salto quasi doloroso. Aveva confrontato quella vita con la sua così banale, e solitaria, una non-vita e le aveva poste agli estremi. Si era detta che in fondo le andava benissimo così, raccontandosi la bugia che fosse una sua scelta. Alla fine di quel pensiero ne era giunto come sempre un altro che lei spegneva puntualmente sul nascere ma che era sempre presente come una cicatrice sulla spalla che non la vedi, ma sai che c’è. L’idea che la sua fosse a tutti gli effetti una vita triste e che avesse perso. Ecco, lei nella vita aveva perso nonostante fingesse una grande vittoria, la sua libertà di donna che ce la fa da sola e che non entra nei suoi vestiti con disgusto, che si guarda allo specchio e si sente sicura di se. Era realtà o fantasia, era autoconvincimento; cercava di pensarci meno possibile durante le sue giornate migliori. Il compleanno di Mara non era una di queste.
Alla fine del corridoio trovò finalmente il suo piccolo angolo di pace e silenzio. Si sedette e poggiò la schiena sul muro, in una posa scomposta, per niente femminile, che era sua da sempre e non era mai riuscita a migliorare. Seduta così, stette in silenzio per qualche minuto, finché non sentì dei passi. Qualcuno si stava avvicinando portando con se una specie di aurea e calore e luce che si sparsero sulle pareti rimbalzando fino alla fine del corridoio. Cominciò a sentire qualcuno fischiettare. Un motivetto sconosciuto, allegro che accompagnava fuori tempo passi lentissimi e cadenzati.
Era un uomo altissimo, con i capelli lunghi e biondi, raccolti in una coda e accenni di capigliatura rasta nascosta qua e là sulla testa. Gli occhi verdi di lui guizzarono sui suoi seni, palesemente e senza vergogna, velocemente, poi si distolsero e ritornarono lì. Un attimo che Teresa sentì distintamente come calore sulla pelle. E poi il silenzio. L’uomo smise di fischiettare e si bloccò di fronte a lei. Automaticamente lei mise su uno sguardo infastidito, come chi non ha la minima intenzione di essere disturbato e sperò per un secondo che lui si spostasse e la lasciasse in pace. Ma si era bloccato, pietrificato. Mise su un sorriso storto, guardandola fissa con la testa piegata di lato. Non disse niente e cominciò a ballare. Di fronte a lei un uomo mai visto stava ballando una musica che era tutta nella sua testa, mentre lei seduta su quelle scale sentì tutte le sensazioni del mondo in un momento, tutte insieme e poi una alla volta. Dalla paura, alla curiosità, l’eccitazione e la stanchezza. Tutto nello stesso momento. Non sapeva se parlare ma avrebbe rischiato di rovinare la scena.
Poi lo vide avvicinarsi e allungare una mano verso di lei, come per invitarla a ballare.
Si vide alzarsi, muovere le gambe verso quello sconosciuto che la tirava per il braccio.
Fu mano nella mano con una persona mai vista che ballava di fronte a lei, senza dire una parola, i capelli lunghi che si muovevano al tempo di un motivo inesistente. E si vide cominciare a muoversi e abbracciare quell’uomo che in quel momento rappresentava, irrazionalmente, tutto ciò di cui aveva bisogno. Si guardò mentre ondeggiava allo stesso ritmo dei capelli e dei suoi piedi e si vide non chiedersi perché.
Lui la guardò di nuovo, dritta negli occhi, le prese una mano e se la poggiò sul viso. Sentì la barba incolta entrare nelle pieghe della sua mano e si stupì a non chiedersi perché lo stesse facendo, perché stesse seguendo quei movimenti, automaticamente, come vittima di un incantesimo.
In un attimo lui le fu vicino, poteva sentire il suo respiro sulle palpebre, poi le sue labbra che si poggiavano tra la piega della palpebra del suo occhio destro socchiuso e il sopracciglio. Poi così anche a sinistra e poi sulla punta del naso e poi sulla piega corrugata al lato della sua bocca che rideva sempre meno con il passare degli anni e lei se ne accorgeva, ogni mattina. Non disse nulla, non ne fu capace. Si lasciò baciare così senza pensare, senza parole, senza sogni, senza perché, senza risposte a domande che non si pose. Quei minuti sembrarono ore, in quel ballo insensato pieno di rabbia e pentimento e così lontano dal suo essere che le lasciò l’impronta delle cose importanti sulla pelle, sul petto, sulle braccia. Ogni punto in cui si toccavano bruciava, faceva male e dava potenza ed eccitazione allo stesso tempo. Non riuscì a sentire il momento in cui lui si staccò e così come era arrivato, volteggiando su quelle scarpe consumate se ne andò, lasciandola ferma immobile. Poi, sentì sciogliersi piano piano, come un castello di sabbia colpito dalle onde insistenti sul bagnasciuga. Si vide con gli occhi del bambino che l’aveva costruita e quando le sue braccia caddero lungo i suoi fianchi realizzò che avrebbe dovuto corrergli dietro e cercare di sapere almeno il suo nome. O chi fosse. Ma sentì di sapere di lui già molto di più di quanto non sapesse di tutti gli uomini della sua vita, solo con quel ballo tragico e dolcissimo, completamente privo di senso.
Senza fretta riprese la borsa che aveva lasciato sulle scale e tornò indietro.
Rientrò in sala e si sedette alla destra di Mara che parlava con il suo vicino di tavolo. Mara la sentì adagiarsi stancamente sulla sedia e per un attimo la guardò, con un guizzo furtivo ma occhi calmissimi.
Teresa prese il bicchiere tra le mani, si versò il vino fino all’orlo e stette ad ascoltare la voce della sua amica che si faceva sempre più lontana, come l’eco di una sirena che si allontana lunga una strada che non porta a nulla.