Guardò, per l’ultima volta, l’edificio in fondo alla
lunghissima discesa di strada sterrata e avvertì la sensazione di essersi
decisa troppo tardi. Spinse sull’acceleratore, girò delicatamente il volante e
svoltò a sinistra. Al primo parcheggio disponibile, in mezzo alle macchine
degli altri invitati, si fermò e si guardò nello specchietto retrovisore per
mettere a posto il trucco. Non aveva voglia di entrare in quella sala piena di
persone che la aspettavano già da un po’ o che, forse, non la aspettavano più.
Prese coraggio e borsa e si trascinò fuori, chiudendo la portiera dietro di se.
Il terreno tra gli olivi del parcheggio era sconnesso.
Pensò alle difficoltà che dovevano aver avuto, qualche ora prima, le altre
invitate con i loro tacchi vertiginosi e sorrise.
Il chiasso della sala da pranzo la investì riportando subito
la sua immaginazione alle solite scene deprimenti dei pranzi di compleanno di
Mara. Si erano fatti ogni anno più noiosi, e la sensazione che non ci fosse
nulla a legare insieme tutte quelle persone, se non Mara stessa, era netta nell’aria.
Teresa stette un po’ fuori dalla porta d’ingresso ad immaginare l’interno
chiedendosi, ancora una volta, cosa ci facesse lì. In fondo, dopo la
festeggiata, era la persona più importante della festa e sapeva che la sua
presenza, così come la sua assenza, sarebbero state notate. Prese il suo
disagio sotto braccio, chiuse la borsetta, spinse la porta di ingresso della
veranda e mise il primo piede oltre la soglia.
“Eccoti finalmente, si può sapere dove eri finita?”, la
accolse gelida Mara che si stava rollando una sigaretta seduta al centro della
tavolata più lunga.
Teresa la guardò con l’aria rassegnata di chi sapeva che
avrebbe dovuto dare mille spiegazioni e non ne aveva alcuna voglia. “Scusami ho
fatto tardi”.
“Sì questo lo vedo. Non ti chiedo neanche perché, lo so che
non ne avevi voglia. Quindi non ti costringerò ad inventare scuse.“
“Ferma, ferma, ferma. Non ho nessuna intenzione di inventare
scuse. So che lo sai che non vorrei essere qui. Così come so che neanche tu
vorresti.”
“A questo punto, potevi anche non venire più.”
“Ciao, Teresa!”, una tipa alta con capelli perfetti, chiusa in
un vestito finto casual ma curata nei minimi dettagli e con il trucco di
quattro ore prima senza sbavature, la salvò da quella conversazione. Non
riusciva nemmeno a ricordarne il nome in quel momento, ma doveva essere
qualcosa come Paola, Catia, Anna, un nome corto per risparmiare tempo che lei
non sembrava averne molto a disposizione, mai.
Teresa e Mara alzarono lo sguardo verso la donna
contemporaneamente; la prima con lo sguardo brillante di chi sta per essere
salvato da una situazione ingombrante, la seconda fulminea e scocciata.
Poi, Mara si alzò di scatto con la sua sigaretta pronta tra
le mani e senza dire una parola si avviò verso la porta di ingresso per andare
a fumare sulla veranda. Teresa si congedò rapidamente dalla donna perfetta con
il nome breve mentre seguiva Mara con lo sguardo. Si incamminò dietro di lei,
nonostante non avesse nessuna voglia di mettersi a discutere. Ma eseguì i gesti
di chi fa esattamente, sempre, quello che deve essere fatto e non sfugge mai
alle proprie responsabilità.
Mara fumava con la schiena poggiata alla parete esterna
della sala da pranzo, con fare nervoso, dando ad ogni tiro dei colpetti alla sigaretta
per far scendere la cenere. Teresa uscì nella veranda e le si mise accanto.
“Mi dispiace, lo sai che non le sopporto queste persone.
Sono rimasta più di un’ora in cima alla salita, al lato della strada, seduta in
macchina, valutando se scendere. Sapevo che era questa la cosa che ti aspettavi
da me e alla fine sono venuta.”
“A questo punto, potevi anche non venire più”, ripeté per la
seconda volta, come un mantra. Mara non sembrava voler aggiungere altro.
Teresa insistette. “Mi dispiace, davvero, ma vedi alla fine
sono arrivata e sono convinta che nessuno si sia accorto della mia assenza,
sono tutti troppo impegnati con il cibo e i loro discorsi deprimenti e molti
sono già oltre con il tasso alcolico”, fece Teresa per sdrammatizzare ”dai hai
visto il marito depresso di Paola, che è seduto giù all’angolo in fondo, è già
andato, sembra che stia per scoppiare.”
“Non ho voglia di ridere, mi chiedo perché tu sia ancora
qui. Potevi non venire.”
Alla terza ripetizione e di fronte all’evidenza che i suoi
sforzi non sarebbero stati apprezzati, Teresa girò su se stessa e disse:
“Bene.”
Tornò dentro e si buttò sulla sinistra seguendo la freccia della
scritta WC, che indicava le scale. Mentre le percorreva lentamente per darsi il tempo di pensare, sentì la
rabbia salirle dentro, e la sentì trasformarsi lentamente in lacrime. La sua
tipica reazione che tornava di nuovo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di
cacciarla indietro nella gola. Odiò se stessa e Mara e quella con il nome corto,
e quel posto, sempre lo stesso, da anni. E poi ancora lei e quella sua
fissazione di organizzare ogni anno la festa, la odiava per aver continuato,
imperterrita, anche dopo che le vite di tutti avevano cominciato a fare
contrasto con la loro. Anche quando era diventato palese che i suoi vestiti da
ventenne non sarebbero cambiati, nonostante di anni ne avesse quasi il doppio,
e le sue scarpe non sarebbero diventate come quelle delle altre che arrancavano
dalla macchina alla veranda trascinando i mariti, ombre di donne in carriera.
In realtà non doveva andare in bagno. Era alla disperata
ricerca di un posto vuoto dove fermarsi a far passare i minuti che la
separavano dal momento in cui avrebbe potuto tornare alla macchina. Il momento
in cui la sua assenza non sarebbe stata più notata e in cui avrebbe potuto
dileguarsi veloce così come era apparsa pochi minuti prima. Superò il bagno e
proseguì per il corridoio lunghissimo che sembrava portare ad altre scale e poi
al terzo piano.
Dalla strada si vedevano distintamente i due piani superiori
dell’edificio. Era stata a guardarli per un po’ immaginando i proprietari che
la sera si ritiravano nelle loro stanze. Doveva essere una vita abbastanza
noiosa, vivere e lavorare nello stesso posto, a circa cinquanta chilometri di
strada di montagna malmessa dal primo centro abitato. Si era anche immaginata
per un momento al loro posto, ed era uno sforzo bello grande pensarsi con una
famiglia da mantenere, con i sacrifici da fare per garantire un’educazione ai
figli. Era tutto così lontano dal suo stile di vita da rendere il salto quasi
doloroso. Aveva confrontato quella vita con la sua così banale, e solitaria,
una non-vita e le aveva poste agli estremi. Si era detta che in fondo le andava
benissimo così, raccontandosi la bugia che fosse una sua scelta. Alla fine di
quel pensiero ne era giunto come sempre un altro che lei spegneva puntualmente
sul nascere ma che era sempre presente come una cicatrice sulla spalla che non
la vedi, ma sai che c’è. L’idea che la sua fosse a tutti gli effetti una vita
triste e che avesse perso. Ecco, lei nella vita aveva perso nonostante fingesse
una grande vittoria, la sua libertà di donna che ce la fa da sola e che non
entra nei suoi vestiti con disgusto, che si guarda allo specchio e si sente
sicura di se. Era realtà o fantasia, era autoconvincimento; cercava di pensarci
meno possibile durante le sue giornate migliori. Il compleanno di Mara non era
una di queste.
Alla fine del corridoio trovò finalmente il suo piccolo
angolo di pace e silenzio. Si sedette e poggiò la schiena sul muro, in una posa
scomposta, per niente femminile, che era sua da sempre e non era mai riuscita a
migliorare. Seduta così, stette in silenzio per qualche minuto, finché non
sentì dei passi. Qualcuno si stava avvicinando portando con se una specie di
aurea e calore e luce che si sparsero sulle pareti rimbalzando fino alla fine
del corridoio. Cominciò a sentire qualcuno fischiettare. Un motivetto
sconosciuto, allegro che accompagnava fuori tempo passi lentissimi e cadenzati.
Era un uomo altissimo, con i capelli lunghi e biondi,
raccolti in una coda e accenni di capigliatura rasta nascosta qua e là sulla
testa. Gli occhi verdi di lui guizzarono sui suoi seni, palesemente e senza
vergogna, velocemente, poi si distolsero e ritornarono lì. Un attimo che Teresa
sentì distintamente come calore sulla pelle. E poi il silenzio. L’uomo smise di
fischiettare e si bloccò di fronte a lei. Automaticamente lei mise su uno
sguardo infastidito, come chi non ha la minima intenzione di essere disturbato
e sperò per un secondo che lui si spostasse e la lasciasse in pace. Ma si era
bloccato, pietrificato. Mise su un sorriso storto, guardandola fissa con la
testa piegata di lato. Non disse niente e cominciò a ballare. Di fronte a lei
un uomo mai visto stava ballando una musica che era tutta nella sua testa,
mentre lei seduta su quelle scale sentì tutte le sensazioni del mondo in un
momento, tutte insieme e poi una alla volta. Dalla paura, alla curiosità,
l’eccitazione e la stanchezza. Tutto nello stesso momento. Non sapeva se
parlare ma avrebbe rischiato di rovinare la scena.
Poi lo vide avvicinarsi e allungare una mano verso di lei, come per invitarla a
ballare.
Si vide alzarsi, muovere le gambe verso quello sconosciuto che la tirava per il
braccio.
Fu mano nella mano con una persona mai vista che ballava di fronte a lei, senza
dire una parola, i capelli lunghi che si muovevano al tempo di un motivo inesistente.
E si vide cominciare a muoversi e abbracciare quell’uomo che in quel momento
rappresentava, irrazionalmente, tutto ciò di cui aveva bisogno. Si guardò
mentre ondeggiava allo stesso ritmo dei capelli e dei suoi piedi e si vide non
chiedersi perché.
Lui la guardò di nuovo, dritta negli occhi, le prese una mano e se la poggiò
sul viso. Sentì la barba incolta entrare nelle pieghe della sua mano e si stupì
a non chiedersi perché lo stesse facendo, perché stesse seguendo quei
movimenti, automaticamente, come vittima di un incantesimo.
In un attimo lui le fu vicino, poteva sentire il suo respiro sulle palpebre,
poi le sue labbra che si poggiavano tra la piega della palpebra del suo occhio
destro socchiuso e il sopracciglio. Poi così anche a sinistra e poi sulla punta
del naso e poi sulla piega corrugata al lato della sua bocca che rideva sempre
meno con il passare degli anni e lei se ne accorgeva, ogni mattina. Non disse
nulla, non ne fu capace. Si lasciò baciare così senza pensare, senza parole,
senza sogni, senza perché, senza risposte a domande che non si pose. Quei
minuti sembrarono ore, in quel ballo insensato pieno di rabbia e pentimento e
così lontano dal suo essere che le lasciò l’impronta delle cose importanti
sulla pelle, sul petto, sulle braccia. Ogni punto in cui si toccavano bruciava,
faceva male e dava potenza ed eccitazione allo stesso tempo. Non riuscì a
sentire il momento in cui lui si staccò e così come era arrivato, volteggiando
su quelle scarpe consumate se ne andò, lasciandola ferma immobile. Poi, sentì
sciogliersi piano piano, come un castello di sabbia colpito dalle onde
insistenti sul bagnasciuga. Si vide con gli occhi del bambino che l’aveva
costruita e quando le sue braccia caddero lungo i suoi fianchi realizzò che
avrebbe dovuto corrergli dietro e cercare di sapere almeno il suo nome. O chi
fosse. Ma sentì di sapere di lui già molto di più di quanto non sapesse di
tutti gli uomini della sua vita, solo con quel ballo tragico e dolcissimo,
completamente privo di senso.
Senza fretta riprese la borsa che aveva lasciato sulle scale
e tornò indietro.
Rientrò in sala e si sedette alla destra di Mara che parlava con il suo vicino
di tavolo. Mara la sentì adagiarsi stancamente sulla sedia e per un attimo la
guardò, con un guizzo furtivo ma occhi calmissimi.
Teresa prese il bicchiere tra le mani, si versò il vino fino
all’orlo e stette ad ascoltare la voce della sua amica che si faceva sempre più
lontana, come l’eco di una sirena che si allontana lunga una strada che non
porta a nulla.