"oddio mi sento le caviglie in catene"

venerdì 25 settembre 2015

Senza titolo 25 - Una storia che non è la mia



E’ un altro giorno di pioggia a Berlino. Di quelli da stare chiusi in casa, dormire, svegliarsi, far colazione, tornare a letto, sotto le coperte, sedersi sul letto a leggere, scrivere. Si sta bene qui, circondati di nulla.
Sono passate due ore da quando mi sono svegliata, l’unico pensiero è far passare il tempo fino a che non dovrò uscire per quell’appuntamento. A che ora è? Non ricordo. Controllo l’agenda. Alle 5. Mancano ancora quattro ore. Rispondo solo allo stimolo dello schermo del cellulare, che si accende ad intervalli brevi. Ho mandato richieste di aiuto e semplici saluti e nell’attesa delle risposte ascolto musica. Questo non migliora la situazione.
Arranco in cucina, apro il frigo, la luce mi acceca e lo richiudo. Torno a letto, qui non c’è niente da fare, nessuna via d’uscita dai secondi che scorrono lenti, più di quando da bambina aspettavo che mia madre tornasse a casa dal lavoro. Non ho capito perché la regola fosse di aspettarla per mangiare finché non sono andata a vivere da sola e la pasta si è trasformata  in insalate e poi in panini, assemblati in fretta, senza cura, perché ci volesse più a mangiarli che a prepararli.
Quando arriva l’ora di uscire ha smesso di piovere. Una massa di facce sconosciute mi assale appena fuori dal portone e comincio a schivarle finché non arrivo alla fermata della metro. Il treno arriva, sferraglia sui binari, frena, si aprono le porte e una seconda massa di persone viene vomitata fuori sulla piattaforma. Una donna, con un passeggino occupato da un bambino con la bocca sporca, indugia sulla porta e non mi permette di entrare. Quando riesco finalmente a passare le lancio uno sguardo di sfida ma lei non se ne accorge e la guardo spingere con disinvoltura quell’enorme affare fino all’ascensore. Mi viene in mente di non ricordare esattamente la faccia del tipo che sto andando ad incontrare per lavoro. Poi penso che avrà i capelli sporchi e valuto per un attimo la possibilità di tornare a letto inventando una scusa. Oggi piove, ma invece c’è il sole.
Contro ogni previsione invece ha lavato i capelli. Mi aspetta seduto ad un tavolo da due dentro al caffè nel quale ci siamo dati appuntamento. Ha già ordinato il suo cappuccino con la schiuma spenta, chiedo un succo alla mela e lo faccio spostare fuori. Devo fumare, gli dico.
Ci addentriamo nella conversazione più lunga e noiosa della mia vita, o meglio nel monologo. Io fumo e non riesco a fare altro se non guardare la sua bocca che si muove ad un ritmo tutto suo, che mi pare  distaccato dal significato delle parole che sta dicendo: quando il discorso si fa concitato assume una strana calma stonata. Quando mi fa delle domande non rispondo e mi accorgo che ad un certo punto rinuncia. Ci stringiamo la mano e in un attimo sono in strada che cammino e, di nuovo, fumo.
Scendo ancora verso il binario della metropolitana verso il secondo appuntamento della giornata.
Quando esco all’aria aperta è buio ormai, e l’aria è carica di pioggia e nel momento in cui mi coglie il temporale trovo riparo dentro un portone. E’ tardi quindi ricomincio a camminare, saltellando tra una tettoia  e l’altra. La sigaretta che ho di nuovo tra le dita si bagna e si spegne in continuazione quindi mi innervosisco e con un gesto stizzito lancio a terra quello che ne rimane. Mi accorgo solo ora che sto masticando un chewingum e mi rendo conto che deve essere stato dopo il succo al caffè con l’uomo noioso che l’ho scartato e infilato in bocca senza pensarci. Lo assaporo meglio e senza sorpresa mi accorgo che il sapore di menta ha lasciato spazio a quello di tabacco. Mi assale lo schifo e mi infilo le dita in bocca per toglierlo come si farebbe con un corpo estraneo. Una rapida occhiata intorno, mi sento osservata. Mi pare quasi che per un attimo tutto quello che di mobile c’è intorno a me si sia fatto immobile o si muova a rallentatore, nell’attesa che decida cosa farne di quello schifo. Alla fine con un ampio gesto quasi dimostrativo mi sposto a lato del marciapiede, sotto l’acqua, e lancio il chewingum in direzione di un grosso cestino. Quello indugia un attimo sul bordo, rimbalza e alla fine cade fuori. Mi blocco, cercando di capire se sia il caso di abbassarmi a raccoglierlo o lasciar correre, girarmi dall’altra parte e tornare sui miei passi. E’ già tardi e poi, in fondo, meriterei davvero quegli sguardi di disapprovazione.
Non riesco a capire davvero che cosa fare, cosa sia giusto fare e forse non sto più pensando neanche al chewingum. Mi viene in mente una notizia che lessi qualche anno fa su un sito. Si diceva che a Taiwan esiste una legge che vieta il consumo di chewingum e avvertiva i viaggiatori in partenza per quella meta di non portarli con se in quanto considerati prodotto di contrabbando. Tutto questo per evitare la formazione di fastidiose macchie sulla pavimentazione dei marciapiedi. Alla fine mi abbasso a raccoglierlo, lo getto nel cestino, mi giro e torno verso casa. Il secondo appuntamento me lo dimentico, fingo di dimenticarlo, voglio dimenticarlo. Mi rimetto sotto le coperte e spengo il cellulare.

lunedì 14 settembre 2015

Senza titolo 24 - senza fine



Al venerdì sera il treno che percorreva la tratta nord-sud era sempre pieno. Tagliava le città, si fermava poco in ogni stazione, sputava fuori e accoglieva dentro viaggiatori di ogni tipo. Un uomo con il cappello e le scarpe bianche, una bambina imbronciata e la mano di sua madre. Qualcuno dormiva, qualcun altro guardava fuori, nel buio, perdendosi sull’Appennino, lasciandosi andare sotto le gallerie, tra Bologna e Firenze. Facce immerse nei libri, pensieri chiusi da cuffie ben pressate nelle orecchie.

A me invece piaceva far finta di fare, ogni volta, una cosa diversa. Mettevo le cuffie ma a musica spenta, chiudevo gli occhi ma non dormivo, aprivo un libro, ogni tanto giravo una pagina, ma non leggevo. E intanto mi perdevo negli altri, nelle loro storie, nei loro occhi, seguivo i fili invisibili che legavano tra loro degli sconosciuti un po’ più vicini alla fine del viaggio. Solo così ho potuto vedere piccoli amori nascere, racconti in dialetti diversi prendere forma, alzarsi sotto le luci gialle e fredde dello scompartimento e poi ricadere sulle teste dei presenti. E nei giorni più calmi, invece ho visto la pioggia scendere e le gocce fermarsi sul finestrino e poi sospinte dal vento riunirsi tra loro. I tramonti in estate sugli orizzonti gialli di luce e la neve in inverno sciogliersi o ancor, lentamente, adagiarsi sui campi.

sabato 12 settembre 2015

Senza titolo 23

Lui si rigira i sogni tra le mani, poi si posano sulle lunghe ciglia che coprono gli occhi di cielo, dietro si legge qualcosa in una lingua che non conosce.

Lei, invece, i sogni li ha scritti sulla pelle, con tratti profondi e visibili al mondo, se non fosse per i vestiti che non toglie mai.

Loro non esistono, uno nell’altro, e continuano a sfiorarsi senza mai toccarsi, perchè se lo facessero verrebbero giù le nuvole, cadendo a ricoprire la città. La stessa che li avvolge, li tira per le braccia spingendoli prima lontani e poi vicini, foglie d’autunno in piccole spire casuali sui marciapiedi, sotto gli alberi, nei giardini.

Lei scrive, lui legge; lui legge, lei ascolta. Si perdono, in un continuo flusso di parole insignificanti mescolate ad altre che invece sono tutto.

Si tengono la vita per la cinta dei pantaloni, stretta bene, fino in fondo. Se la tengono nelle mani tremanti, i pugni chiusi a tenerci dentro un segreto, i pugni serrati, che fanno male.

Poi, lei mette i suoi amori inesistenti in un cassetto, chiude tutto a chiave e finge che non ci siano.
Forse, alla fine, si incontreranno prendendosi per mano, finalmente senza dire niente.