"oddio mi sento le caviglie in catene"

venerdì 23 gennaio 2015

senza titolo 9

Correre correre correre. Mi fermo sul ponte che attraversa il canale e guardo giù.
Acque scure, quest'anno non ghiaccia. Il sole, che strano, non te lo aspetti.
Un barbone passa dietro di me, lo sento dal rumore delle bottiglie di vetro vuote che ha nelle buste che si porta dietro, o forse per il puzzo che emana.
Ritiro il viso, sudato, nella sciarpa per non sentirlo, cerco di infilare il naso tra le piccole pieghe che si sono formate e inspiro profondamente il profumo che è rimasto attaccato alle fibre.
Quando ho regolarizzato il respiro e il barbone è ormai lontano torno a far entrare l'aria fresca nelle narici e la sento scendere giù fino ai polmoni, fa quasi male.
Ora dove correvo mi sembra quasi un ricordo pallido e le motivazioni prima così chiare da premermi sulle gambe mi sembrano così imbecilli che non le ricordo più. Mi guardo i palmi delle mani, soprattutto la destra, li alzo e li faccio combaciare uno con l'altro, e per un attimo mi sembra impossibile il fatto che siano così simmetrici, speculari. Credo sia una sensazione che si prova appena nati come quella di scoprire la magia delle parti del corpo che si muovono e sei lì che ti guardi i piedi e le mani e le braccia e la pancia che fa su e giù su e giù incessantemente.
Chissà come deve essere la sensazione della prima volta che ti accorgi che non riesci a respirare, la prima volta che hai il fiato corto, come succede a me in questo momento. Ritiro le mani velocemente in tasca perché fa un freddo boia e io non so dove ma ho perso per l'ennesima volta i guanti. Storia triste, quella tra me e i guanti, preferisco le tasche ché non le posso perdere.
Il fiume perde improvvisamente interesse e riprendo a camminare verso la fine della strada.
Gli altri sono giù nel bar in fondo alla via che mi aspettano da quasi un'ora e sì che ero una persona puntuale; ecco, ero. Ora non riuscirei ad arrivare puntuale neanche ad un appuntamento con me stessa. Sono in ritardo sulla mia tabella di marcia ma ora e qui non me ne importa più nulla.
Le mani combaciano, le gambe si muovono e posso rifugiare il naso nella sciarpa: cosa può fregarmene delle tempistiche a me.
E poi tanto, in fondo, nella gara contro il tempo non si vince comunque mai.

lunedì 19 gennaio 2015

senza titolo 8

Dicono che l'obiettivo della loro vita sia raggiungere la perfezione.
Tutti automi vestiti di classe, con il mirino settato sullo scalare montagne, per arrivare al traguardo su vette bianche come il latte, senza nemmeno una sbavatura, nessuna impronta sulla neve.
Cerchiamo invece le imperfezioni, le righe storte, i buchi sulle maglie, la matita che cola, la parola fuori posto, l'eccessiva salivazione, l'eccitazione di fronte alle cose belle, che non si può contenere ed esplode in mille rivoli tra le pupille e il naso (storto).
Andiamo a vedere come si evolve l'essere umano fuori dai suoi schemi, in difficoltà di fronte a qualcosa di così indefinito da non poter essere affrontato con precisione. Quando la soluzione non è una sola.
Puntiamo con forza e insistenza sulla creatività. Proviamo a vivere così, sempre all'ultimo minuto, sempre di aria rarefatta, sempre con panni sporchi da lavare nel fiume che scorre dentro di noi, nel lento scivolare di un giorno semplicemente imperfetto.
E troveremo la nostra personale prospettiva sulla perfezione.

sabato 17 gennaio 2015

senza titolo 7 - vuoto



Ti alzi di scatto a sedere sul letto. Lei si è addormentata poche ore prima e adesso quel minuscolo spazio, in quel letto troppo piccolo per due, è ancora caldo ma vuoto. La testa ti pulsa, qualcosa ti batte sulle tempie come non succedeva da tempo . Bere troppo è sempre controproducente, te lo devi segnare, pensi. Tutte quelle minuscole regole del vivere comune ti faranno impazzire un giorno, ma tu questo ancora non lo sai.
Quel giorno è ben lontano e non devi avere questa informazione prima del tempo.
Chissà che le hai detto quella notte, pensi. Non riesci a ricordare nulla, solo i suoi occhi che ti guardano nel buio, occhi grandi, due fari che proiettano la tua ombra sul muro dietro di te e ti fanno sembrare enorme,  molto più grande di quello che sei. Gioco di luci e proiezioni. Metti i piedi a terra e tutto gira intorno, i muri sembrano liquefarsi sotto i tuoi occhi ed il respiro è pesante. Torni a sdraiarti.
Sono passati dieci minuti circa, anche se a te è sembrato un tempo lungo, che non finisce mai, il tempo di dormire e sognare e vivere due o tre vite contemporaneamente.
E invece sono solo dieci miseri fottutissimi minuti.
Ci riprovi, ad alzarti. Devi andare a cercarla nell’altra stanza, senti che potrebbe essere troppo tardi, ma provi. Stavolta il tentativo va molto meglio, eccoti lì in piedi stabile, più o meno, nella tua posizione eretta. Se pensi a quanti millenni ci sono voluti perché gli ominidi riuscissero a mantenere quella posizione, a te sono bastati pochi bicchieri di vino per far sembrare tutta quella fatica uno spreco inutile. Mantenendo lo stadio di erezione uno, riesci a raggiungere la cucina.
Ma lei non c’è. Sbatti il ginocchio sulla zampa del tavolo ma non senti nulla. L’unica cosa che vedi sono il divano e le sedie e il tavolo e tutto lo spazio intorno a te completamente vuoti. Un vuoto che non hai mai sentito prima mentre il martello pneumatico continua ad essere in funzione nella testa.
Provi a prendere un’iniziativa o no? Diciamo che provi a rivestirti e ad uscire, magari riesci ancora a prenderla in tempo nell’altro isolato. Sarà sicuramente andata a prendere la metropolitana, la prima del mattino, quella delle 5:40. E invece no, non ti muovi  e torni a dormire.
L’unica cosa che ricordi adesso di quella conversazione avuta poche ore prima è quella frase, non ti lascerò mai. Bella verità, che si è protratta più a lungo nel mondo reale di quanto la tua posizione eretta potrebbe protrarsi all’esterno di quelle quattro mura.

domenica 11 gennaio 2015

senza titolo 6

Berlino, città mia, che sei molto di più di questo.
Sei ciò che più si avvicina alla vita.
Esci fuori dalle mie braccia aperte mentre me ne sto in piedi dritta sulla cima dei tuoi palazzi altissimi e dei tuoi luoghi abbandonati, con il vento fortissimo che soffia su di te in questi giorni e si sente solo questo, da fuori è l'unico rumore che penetra.
E ti vedo muoverti sotto di me, grande e piccola allo stesso tempo, mille puntini e luci si spostano rapidamente da Est ad Ovest e ritorno. Emblema di come ciò che è stato diviso può riunirsi senza perdere la sua specificità. Incrocio di anime, perse nel traffico caotico di Roma o nel lento passare delle ore, infinite, di paesini e città dove mai nulla accade mentre qui succede tutto.

Tutto è calmo adesso in questa domenica di solitudini lente, difficili da scalfire ma so che sei là fuori e c'è solo da uscire e scaraventarti sulla mia faccia.

giovedì 8 gennaio 2015

senza titolo 5

Guardò fuori. La città era completamente bagnata, come un'anguilla viscida, appena pescata, in preda agli spasmi, avvisaglia dell'imminente morte.
Da Quel Giorno tutto aveva preso una brutta piega, era chiara la fine dell'idillio, era chiaro che fosse imminente ed erano altrettanto chiare le motivazioni. Non si può mai pensare di portare una situazione all'estremo senza pagarne le conseguenze. E quello era stato il caso della Città e di mille altre cose e situazioni nella sua vita. Probabilmente pensò, la stessa cosa era accaduta a quelli lassù ai posti di comando che avevano deciso il susseguirsi degli eventi e delle decisioni prese in Quel Giorno e allora perchè non avevano valutato meglio, perchè non avevano saputo o voluto imparare dalle loro vite vissute, dai loro stessi errori.
Era una domanda senza risposta, pensò. Per la sopravvivenza era sicuramente meglio smettere di porsi quel tipo di questioni, ma voleva davvero sopravvivere e basta? Altra domanda senza risposta, pensò. Qui si mette male, pensò ancora.
Valutò per un secondo, seduta sul letto, se valesse la pena alzarsi, vestirsi di quella specie di armatura disgustosa che erano costretti ad indossare tutti i Nati Prima, per via della loro pelle troppo debole per resistere in quelle condizioni, oppure ripiegare sulle calde lenzuola e l'aria non rarefatta della casa in cui si trovava. Mise la testa sotto il cuscino e respirò affannosamente fino a che il rumore del suo stesso fiato non cominciò a disturbarla. Non ne valeva la pena di certo affrontare il mondo esterno. Ripose le sue intenzioni nel cassetto e riprese sonno, quel sonno pesante delle prime ore del mattino, quando ci si sveglia troppo presto e si vorrebbe per un attimo poter mangiare l'aria intorno a se e galleggiare sull'ultima onda del sogno appena finito.

venerdì 2 gennaio 2015

senza titolo 4 - 2015



E’ un anno nuovo.
Questa frase, pesante come una sentenza, aleggiava da due giorni sulla sua testa. Pensieri e parole, promesse e azioni sbucavano fuori dalle bocche e dai corpi delle persone che la circondavano. Andrò in palestra, mi prenderò meno sul serio, avrò più cura della mia famiglia, sarò più presente, niente più carne, una bugia al mese e una fantasia al giorno.
E tutto questo non faceva che aumentare la sua ansia. Ansia di non essere all’altezza.
La stessa che la seguiva da sempre, di non rientrare negli schemi e non rientrare neanche negli schemi al di fuori degli schemi. Niente, nessuna categoria.
Si tira una riga alla fine dell’anno per cominciare a scrivere con nuovi colori, come quando all’inizio della scuola i bambini scrivono il nome sui quaderni, si comincia la terza classe e le penne di tre colori. E c’era un tempo pensò in cui il primo giorno di Gennaio era tutto una novità. Lo sguardo su se stessa di un altro anno che passa ed i progressi fatti e finalmente ci buttiamo via tutto ciò che non ci è piaciuto. E così via.
Invece ora era lì a ponderare cosa non era andato bene e cosa sarebbe continuato a non andare per il verso giusto, gli stessi errori, gli stessi patemi. Le lacrime versate due volte sullo stesso tavolo, per lo stesso motivo e l’incapacità di migliorare. Il braccio si blocca, il cervello si impalla, la vista si appanna e la voce, ah quella si spezza.
Rompere il maledetto incantesimo che la inchiodava alla sedia, senza la forza di spostare l’obiettivo un po’ più in là.