"oddio mi sento le caviglie in catene"

lunedì 12 ottobre 2015

Senza titolo 28 - Rive



Sono uno stregone, sono la pittrice delle parole. Sono giovane e vecchia. Indosso un cappotto nero lungo fin sopra il ginocchio. I capelli, che ho sempre portato molto corti, si stanno allungando senza che io trovi il tempo di andare a tagliarli. Ora mi arrivano alle spalle e spuntano all’infuori, arricciandosi oltre la sciarpa pesante che mi avvolge il collo. 

Prima camminavo verso casa, seguendo il corso del fiume. Ora, invece, sono ferma, appoggiata al parapetto freddo che mi taglia lo stomaco in due. Il vento soffia forte e sento le guance avvampare. Il sole autunnale prende le persone per mano e le accompagna alla fine di giornate sempre più brevi. Un battello di quelli che portano a zonzo i turisti lungo il sistema linfatico di questa città sta passando proprio sotto di me. D’improvviso l’odore del carburante a contatto con l’acqua stagnante mi arriva al naso, riportandomi ai ricordi dell’infanzia. Al porto. 

Fino all’età di dieci anni ho vissuto in una città di mare, un non-luogo nel quale approdavano pescherecci con il pesce fresco e grandi navi da crociera a liberare sulla banchina orde di turisti americani. Coppie di anziani dalla carnagione chiara, con i pantaloncini grigi e i calzini alti, bianchi, infilati in sandali neri o marroni uscivano da quelle enormi pance d’acciaio strizzando gli occhi colpiti dalla luce di un sole cocente a picco sul cemento. Ci andavo con mio padre, la barba lunga e il giaccone beige, un cappello blu a ricordare i tempi in cui era stato arruolato in marina. Dev’essere per questo, mi dico, che assaporo la tranquillità dello stare immobile, accanto ad un corso d’acqua che pare anch’esso non muoversi e invece scorre, senza sosta.

Oggi porto con me un ospite. Mi sta seduto sulla spalla sinistra, proprio in quello spazio tra l’attaccatura del braccio e il collo. E’ con me da un paio di giorni e non mi ha detto quanto rimarrà. E’ un dolore fisico di quelli che ti confondono e ti fanno camminare tra la gente, guardando tutti negli occhi, come a dire: cosa ne sai tu? Di quelli che ti sdoppiano fino a farti vedere da fuori il tuo corpo che si sposta storto, sbattendo da una parte all’altra della città. Oggi percorro questo breve tratto di strada come ho fatto altre decine di volte, ma farlo in compagnia rende tutto diverso. Questa enorme costruzione in mattoni rossi, ha le finestre incorniciate da tubi di ferro azzurri che lanciano nell’aria vibrazioni a intermittenza con le folate di vento. Non me ne ero mai accorta prima. E’ questo dolore che toglie la patina dei pensieri da sopra tutte le cose e te le lascia così per quello che sono, nude, al cospetto di una sensibilità grezza e potente.
Vorrei poterlo prendere in mano e gettarlo nel fiume, vederlo affondare piano per tornare stabile. Ma ci rinuncio e spero in una vacanza breve, in una visita di cortesia.
Mi stacco quindi dal parapetto e lo prendo per mano e me lo trascino dietro sperando che si spenga all’inizio della prossima alba. 

Guardate ora questa coppia bizzarra che ricomincia a camminare, barcollando, verso casa, con me da un lato piegata come una vecchia artritica e lui dall’altro come un amico che non se ne vuole andare.

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