"oddio mi sento le caviglie in catene"

venerdì 3 aprile 2015

Senza titolo 16 - Versione 1 di X



In una giornata di metà Maggio ci incontriamo vicino al fiume.
Ci baciamo, i nostri volti si incastrano con gesti precisi di due che si conoscono alla perfezione.
Prendi il tuo libro e ti avvii davanti a me, cercando un posto dove sistemarti.
Tu all’ombra dell’albero, che cerchi l’erba fresca e rifuggi il sole, io qualche centimetro più in là, al confine tra il giorno e la notte. Ci sdraiamo come ogni giorno senza dirci una parola.
Accendo la musica forte nelle orecchie per non sentire il silenzio.
La mia mano, tra l’orecchio e l’erba, ovatta tutto e distinguo solo i battiti del cuore emergere a fatica e rimbombarmi dentro come in una stanza vuota.

Alla mia sinistra una donna anziana porta con orgoglio il suo casco di capelli argentati a passeggio per il lungofiume. Sembra un’atleta alle olimpiadi con la sua medaglia appesa al collo e la bandiera sulle spalle che fa un giro di pista sorridendo alla stampa.
Così, immagino noi tra cinquant’anni e una morsa mi stringe la gola. Forte, preme lì dove colloco automaticamente l’ansia dei nostri giorni lenti. Istintivamente mi giro verso di te, muovendo gli occhi a cercare il tuo sguardo perso nelle pagine del libro. Non riesco a vedere le tue pupille muoversi e scivolare sulle parole, ma so che se anche le scorgessi non potrei capirti.
Per un attimo si fa viva la sensazione che ci muoviamo a due velocità diverse, come se sulle nostre vite agissero le mani di un regista inesperto. Ma è solo una piccola distrazione dall’acqua stagnante del canale e si rintana immediatamente senza lasciare traccia.

Mi alzo e mi avvicino infittendo l’ombra dell’albero sull’inizio di Capitolo 3 e tu mi chiedi, con un’occhiata inesistente, se mi sto annoiando. Ti scuoto la testa tra le mani con rabbia, come se potessi fare in modo che ti escano dal cranio delle piccole idee inconsistenti, nuvole vaporose. Ma non funziona, quindi rinuncio e senza girarmi percorro all’indietro la distanza che ci divide. Torno ad auscultare la terra sotto il sole di primavera.

So che qualcosa si è rotto. Posso sentire il tintinnio dei pezzi rimasti, sbattere uno sull’altro vibrati dal vento. Si è frantumato lo stesso giorno in cui ti sei spento ed hai tuffato i tuoi occhi in milioni di parole. Il giorno in cui ho assunto il mio colore pallido che provo a rianimare con labbra rosse che tu non noti. Quello in cui mi hai cantato la ninna nanna del nostro amore, facendomi addormentare tra le braccia di uno sconosciuto. Dove non arriviamo noi, ci arriva l’aria, che mi porta una ventata di te. Continuo a cambiare posizione per non sentirla, da un fianco all’altro, ma non sto mai comoda, mi succede anche a letto chissà se te ne accorgi.

Ad ora di cena, finalmente, con la noia della nostra recita grottesca di coppia felice, togliamo il disturbo.
Ce ne andiamo sulle orme del sole che ha cominciato a fare lo stesso poco prima di noi.
Camminiamo lenti verso la stazione poggiando bene i piedi a terra, seguendo la traccia delle nostre scarpe impressa dall’incessante percorrere questa strada quasi ogni giorno in cui non piove.
Passiamo oltre le facce immobili di alcuni giovani sul ponte, che riflettono quello che potremmo essere e che non siamo. Un paio di loro si voltano e ci trapassano la testa con lo sguardo, forse vedono il mio panico e la tua apatia rotolare fuori dalle orecchie, confondersi e trasformarsi nella stessa paura che ci ha uniti e ora ci divide.
L’acqua sotto il ponte scorre lenta e ci accompagna fino all’incrocio, dove veniamo sommersi dalle voci del mercato, poi da un pianto disperato e da una macchina sguaiata che riparte al semaforo indicandoci la strada.

Scendiamo le scale verso i binari e ci ritroviamo al tramonto dei nostri giorni insieme.

Osservo la tua bocca, apro la mia, respiro forte e inizio la fine.

Ti chiedo: succhiami l’anima, stringimi le spalle e fammi fuori. Ti guardo e penso solo questo, fammi fuori. Non riesco a formulare un’altra richiesta. Ti sputo addosso il rancore di quello che non ho potuto avere mentre tu mi guardi e i tuoi occhi chiedono solo pace.
Tutto intorno si muove alla velocità della luce mentre noi due, come lacrime ghiacciate su visi increduli, stiamo fermi immobili sulla banchina. Ci cristallizziamo come i ricordi nella mente di un vecchio, che seduto al tavolino di un bar guarda la gente passargli accanto e ripensa a suo figlio lontano, lo immagina sorridente e bambino come se il tempo non fosse mai passato.
Un folle urla contro gli uomini della sicurezza e trascina con se un cane sofferente che non lo abbandona, non come me.
Abbiamo fame, io ne ho, fame di vivere il presente. Ti chiedo indietro tutte le ore perse a farti del male, le rivoglio ora perché non ho altro tempo.
Ti faccio un’offerta che accetterai. Ti lascio in pace, urlo sul tuo viso inamidato per l’ultima volta e poi me ne vado. Tu, restituiscimi il tempo, la fiducia, gli occhi e la pelle, che me l’hai tolta e dove ci sono le mancanze fa dolore. Rimetti a posto le mie ossa e releghiamoci ai due capi del mondo.
Ora lasciami andare e non mi vedrai più, ti dico, mentre mi riempio il bicchiere fino all’orlo, con del vino scadente come la nostra storia fallita.
Prendendo il mio imbarazzo sotto braccio, ti saluto sorridendo mentre mi avvio in silenzio verso i miei segreti. Con un rumore sordo ti mando indietro, verso il mondo che meriti.

Chiederò i danni perché mi hanno dato un te difettato.

Intanto il folle ha smesso di urlare e io ti vedo rimanere fermo alla velocità del treno.

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